Dalla Diocesi di Napoli
Dalla diocesi di Napoli*
di Giuseppe Daniele e Gaetano Marino
I Diaconi della Diocesi di Napoli vivono il loro servizio ministeriale principalmente nelle famiglie, nei luoghi di lavoro e nelle comunità parrocchiali in cui sono stati inviati dal Vescovo. In un passato, ormai remoto, ci sono state tre diaconie nel territorio diocesano di servizio liturgico che davano particolare attenzione alla catechesi e alle liturgie. Con le riforme delle parrocchie e lo smantellamento del campo dei terremotati queste diaconie sono finite. In un recente passato, in virtù della lettera Pastorale “Canta e Cammina” (2013/2014), è stato costituito un centro di ascolto (2014/2015) nel III Decanato, coordinato da alcuni diaconi, organizzato secondo lo schema di una diaconia: assistenza catechetica-liturgica e servizio agli ultimi (accoglienza e soddisfacimento di alcuni bisogni primari). La chiusura della struttura, a causa di crolli, dovuti al maltempo, ha scritto la parola fine anche a questa esperienza.
Nel seminario sulla Caritas è stata vagliata l’opportunità della ricostituzione dei centri di ascolto, per cui sono allo studio delle iniziative per la nascita di nuovi centri. Al momento alcuni diaconi sono impegnati in particolare nella pastorale carceraria. Ci sono 5 i diaconi che, stabilmente, operano presso gli Istituti detentivi di Poggioreale e Secondigliano, che si occupano della catechesi ai detenuti e della pastorale carceraria nei rispettivi decanati promuovendo iniziative con i detenuti (giornata di preghiera, raccolta materiali) e assistenza alle loro famiglie con particolare attenzione ai figli.
Altri diacono sono impegnati nella pastorale sanitaria: due diaconi operano stabilmente presso le strutture sanitarie della città di Napoli, affiancano i Cappellani delle strutture nell’assistenza spirituale ai degenti secondo lo specifico del ministero diaconale. L’8 gennaio 2016, a Villaricca, nella tendostruttura “Papa Wojtyla”, si sono riuniti i consigli pastorali parrocchiali del VII, VIII e X decanato per incontrare e comunicare al Cardinale Crescenzio Sepe le iniziative che coinvolgono le comunità parrocchiali al fine di mettere in pratica la seconda opera di misericordia corporale: “date da bere agli assetati”. Prezioso è stato l’intervento di Suor Debora che ha parlato delle attività pastorali in carcere e di come la Chiesa locale risponde a questi nostri fratelli attraverso la presenza di cappellani, diaconi, consacrati, operatori pastorali, che operano nell’ascolto, nella preghiera e nella carità, dimostrando sete di conoscenza e apertura ai bisogni dei detenuti. Tra le altre cose sono stati avviati gruppi di alfabetizzazione per stranieri, iniziative che vengono estese fino ai servizi territoriali: un lavoro di rete fra la parrocchia del territorio, il centro di ascolto e la pastorale carceraria per favorire l’integrazione, evitando il deserto e favorendo nuove prospettive di vita.
*DANIELE G. - MARINO G., Dalla diocesi di Napoli, in Il diaconato in Italia, 203(2017), p.32.
L’esperienza della cura
L’esperienza della cura*
di Gaetano Marino
Quando gli Apostoli sentono la necessità di ordinare i primi sette diaconi scelgono sette uomini di comprovata reputazione, saggezza, lasciandosi guidare proprio dall’esperienza della “cura”. Questo termine, profondamente dibattuto nell’ambito della filosofia esistenziale da Edgar ai nostri giorni, traduce la compassione di Gesù, così come viene espressa nella parabola del “Buon Samaritano”. Il Buon Samaritano non è solo colui che si prende cura del malcapitato, ma lo stesso albergatore; questo ci induce a pensare che la compassione va estesa non solo ai malati e ai bisognosi, ma anche a coloro che si prendono cura di questi ultimi: “dottori, infermieri, personale paramedico, familiari, amici e parenti”: una pastorale non limitata solo al sofferente, ma che coinvolga tutti. Nasce la necessità di leggere il tema “cura” nella dimensione totale e di riformulare l’intera pastorale del malato, di creare una sensibilità che dia la possibilità di relazionarsi e di preferire la linea dell’insieme. Questo ministero porta alla ricerca non solo di cure spirituali per gli infermi, ma sensibilizza e incide nel vissuto della comunità.
Usandole parole di papa Benedetto XVI, tutti possono diventare buoni samaritani, in modo particolare, coloro che sono stati toccati dalla malattia e dalla sofferenza. Il diacono, espressione dell’incarnazione dell’Amore di Dio nel servizio, è colui che deve essere convinto di ciò che fa affinché il suo servizio diventi dono. Inoltre, è necessario avere le idee chiare, oggi non è più il tempo di sforzi solitari, credo che sia giunto il momento di “operare insieme” per servire la Chiesa. E’ Gesù che ci insegna ad agire, l’azione di Cristo diventa l’azione della Chiesa che coinvolge non solo chi è insignito dell’Ordine Sacro, ma anche tanti laici: un prezioso passo avanti che chiama a rispondere al dettato di amore, trasmessoci da Cristo Nostro Signore, un richiamo a vivere nel rispetto delle singole realtà.
La parabola del Buon Samaritano ci riporta una serie di immagini che troviamo nella vita quotidiana e ci insegna il modo come comportarci nei confronti di chi è ferito nel corpo e nello spirito, per cui l’incontro e la solidarietà con i sofferenti ci richiede un cammino di conversione continua. La Chiesa nasce e si consolida dove si è disposti ad accogliere gli altri, nel farsi prossimo, nel prendersi cura. Oggi si assiste ad una scristianizzazione continua, tanti fedeli sono distratti da molte cose per cui vivono, raramente, la presenza in parrocchia, preferendo altre strade: un fenomeno noto che, certamente, non è nato da un giorno all’altro. A questo bisogna aggiungere che in tanti cattolici vige l’avversione allo stare insieme, preferendo forme di individualismo, il fare da sé, svuotando il senso dell’amore fraterno, della solidarietà, del sacramento dell’incontro, pertanto, servono nuove forme di evangelizzazione, nuovi stimoli che portino a rivivere l’importanza della presenza in parrocchia, riconoscendola luogo privilegiato di formazione e di vita cristiana. E’ importante uscire dalle mura parrocchiali per andare incontro alla gente nei luoghi dove abita, lavora, vive affinché prenda coscienza dell’appartenenza alla Chiesa. Il diacono, ministro sacro, è chiamato ad esercitare questa fermentazione evangelica e caritativa. La pastorale dell’ammalato incide su tutta la comunità ecclesiale i cui soggetti sono i malati e tutti coloro che sono coinvolti nel campo della sofferenza. Questo comportamento deve rientrare in un preciso cammino di crescita fino a mettere in discussione il nostro modo di pensare, riconoscere le nostre povertà fino a cambiare qualcosa nel nostro comportamento. E’ importante che nulla vada fatto con insistenza, ma che sia finalizzato a migliorare i rapporti tra i vari carismi. Quest’agire diventa espressione di una missione al fine di mettere in essere forme pastorali più incisive per il nostro tempo, bisognerebbe attuare una integrazione che richiami alla fraternità, un modo intelligente per coinvolgere diverse categorie di persone; un’occasione che porta ad intraprendere un cammino di responsabilità in cui la gente si senta valorizzata, amata, al centro dell’attenzione, partecipe, capace di suscitare interesse: un’azione pastorale che incida sulla persona, attenta ai reali bisogni, superando le chiusure che minimizzano l’incontro. La chiusura porta ad allontanarsi dalle persone, ad avere la possibilità di avvicinarsi a loro. Ricevere delle risposte significa scavare nuovi pozzi di aiuto, di crescita, di futuro; una sanatio delle ferite, una ricostruzione di un tessuto di fede alla luce dell’insieme, che coinvolga non soltanto l’ammalato, ma tutti coloro che si lasciano toccare dalle ferite altrui, da qui l’importanza di una pastorale integrata che favorisca la missione, una riscoperta dell’équipe per creare ponti di collaborazione tra comunità ospedaliera e comunità territoriali, tra le diverse comunità parrocchiali.
*MARINO G., L’esperienza della cura, in Il diaconato in Italia, 205(2017), pp. 41-42
I diaconi a servizio degli stranieri
I diaconi a servizio degli stranieri*
di Gaetano Marino
Gli stranieri arrivano in Italia decimati nella loro condizione familiare (o senza figli o senza mogli, senza genitori) e, talvolta, con la drammatica esperienza della morte di qualche membro della famiglia. Di fronte a questa situazione, il diacono oltre all’accoglienza deve offrire una competenza in ambito familiare che gli deriva non, esclusivamente da una competenza teologico-pastorale, ma dalla sua capacità di armonizzare nella sua vita spirituale il sacramento dell’ordine con quello del matrimonio.
Oggi, ci troviamo di fronte ad un esodo di massa, interi popoli cercano quella sicurezza a loro negata, per cui si spostano mettendosi in gioco, con il rischio di non arrivare mai, di soccombere dove nessuno domani li potrà piangere. Tutto diventa oscuro, nella persona c’è una forza che spinge a guardare avanti, a dare quell’input che garantisca la sfida. Su questo potremmo dire tante cose, chi soffre è colui che viene privato della sua dignità, capace di superare ogni violenza per crearsi un avvenire. Se guardiamo al passato ci sono stati tanti esodi, ma oggi, in particolar modo, ciò che sta accadendo mina l’uomo, rendendolo debole, privo della sua vivacità, della sua speranza.
Possiamo dire con l’occhio della fede che è un “segno dei tempi” per cui non è possibile fare un semplice commento, ma è necessario relazionarsi con l’altro e noi diaconi siamo interpellati a dare questa preziosa presenza come risposta alla chiamata di Dio con un “si”, che sia stile di vita. Il diacono non è consacrato solo per la liturgia, ma per farsi prossimo, per cui il suo agire deve diventare preghiera, strada che conduce al cuore di Dio, risposta al dono ricevuto senza merito perché è Cristo che mi ha chiamato ed è Lui ad operare attraverso di me.
Questa è la più bella liturgia: farsi presenza, prossimo; la risposta al “si” quotidiano. La relazione, quindi, è l’aspetto primario che va attuato, dopo aver letto in che modo potersi promuovere. Ci sono differenti situazioni che chiedono una dinamica di approccio: si pensi alla presenza di famiglie intere che manifestano l’esigenza di essere accolte, integrate, rispettate, guarite da profonde ferite socio-familiari, aiutate nel contesto sociale. Non si tratta di una semplice presenza per proseguire poi per altre città o nazioni, bisogna ricostruire un tessuto sociale che è stato lacerato, offeso, partendo dalla base, creando luoghi che siano oasi di sicurezza, che diano la possibilità di potersi integrare per iniziare un preciso percorso di vita che nel tempo diventa modello di comportamento, capace di farsi strada con una precisa volontà di disponibilità e di apertura alla cultura che trovano, pur rispettando la propria, affinché possano sentirsi parte di una famiglia più grande.
Inoltre, ci sono delle presenze di una sola parte di famiglia che è stata traumatizzata per violenza, per uccisioni di persone care. Quanti giovani scappano dalle loro terre per non essere uccisi, violentati o perché non accettano di essere sottoposti a continui abusi, per la paura della guerra, del terrorismo, delle rappresaglie, della dittatura, della facile uccisione! Si rifletta anche sulla presenza di minori, di bambini soli, scioccati che hanno necessità di essere integrati in famiglie aperte ed esperte perché non basta la buona volontà, ci vuole una costante presenza che dia loro quell’abbraccio di vita che è venuto meno fino a cancellare le violenze subite.
In questo contesto il diacono italiano in quali spazi può muoversi ed agire? Certo, egli comprende e riflette una mentalità familiare, percepisce in maniera reale il bisogno di quanti non hanno niente su cui poggiarsi. E’ palese leggere dal volto degli stranieri la disperazione di chi fino ad ieri aveva una casa, una famiglia, un lavoro, una sicurezza. Credo che il diacono debba fare un passo avanti per dare una risposta che sia tale da garantire la sua maturità sacramentale a chi vive questo aspetto traumatico. Mi pongo delle domande: in questa società così formale quali sono gli ambiti in cui posso intervenire? Credo che ci voglia un tipo di solidarietà che sia la risposta al forte disagio, non serve la timida presenza o volontà, è necessario essere coinvolti per vivere la diaconia dell’amore, del servizio, solo così possiamo dire che l’agire dei diaconi è accoglienza e non assistenzialismo, una vera missione, una testimonianza capace di coinvolgere tanti altri che fanno parte della società, della chiesa.
*MARINO G., I diaconi a servizio degli stranieri, in Il diaconato in Italia, 204(2017), pp. 42-43.
L’identità del diacono
A margine della Giornata Regionale dei Diaconi permanenti svoltasi a Pompei
L’identità del diacono*
di Gaetano Marino
Il 3 marzo a Pompei, si è celebrata la giornata regionale dei diaconi permanenti con la presenza del Cardinale Sepe, presidente della Conferenza Episcopale Campana, del Cardinale Stella, prefetto della Congregazione del clero, del Vescovo Acampa, dell’arcivescovo di Pompei, di diversi vescovi campani, sacerdoti e tanti diaconi con mogli. Il Cardinale Stella ha tenuto una preziosa ed esaustiva relazione su: “Identità, formazione e missione del diacono”. Il presule si è soffermato sul dettato della Commissione teologica internazionale. Il diaconato: Evoluzione e prospettive VI capitolo e sulle parole del pontefice in occasione della visita Apostolica a Milano il 25 marzo 2017.
L’incontro sottolinea come il diacono permanente, pur essendo giovane nella Chiesa, è volontà di Dio. Lo stesso pontefice lo definisce “Custode del servizio nella Chiesa”. Le tre realtà mi hanno colpito in modo particolare: è stato come rileggere una pagina di evoluzione storica della vita del diaconato.
Riguardo alla formazione è di primaria importanza che il diacono abbia le idee chiare: egli è un consacrato, ha ricevuto l’imposizione delle mani per l’annuncio della Parola ed il servizio alla carità, per cui la formazione investe tutti i campi e gli permettono di essere viva presenza in mezzo alla gente; una garanzia che lo richiama ad essere attento in quanto egli non si appartiene più e, pur essendo sposato, ha ricevuto la grazia di partecipare alla vita della Chiesa prima nella sua dimora con i suoi e poi in tutti i luoghi dove è chiamato a nome di Cristo in obbedienza a mettere in pratica il mandato del vescovo, ad essere al servizio dei fratelli, vivendo il dono della fraternità in tutte le circostanze della propria vita. Alla formazione bisogna crederci, affrontarla ed immergersi a viso aperto senza alcuna scusa, essa è e sarà sempre una specifica peculiarità che aiuta ad essere viva presenza, segno e risposta di un amore più grande. La formazione non solo cambia il diacono nell’esercizio delle sue funzioni, ma dà l’opportunità ai presbiteri e ai laici di essere coinvolti in questo processo evolutivo. Oggi, è importante sottolineare che, per grazia di Dio, i candidati al diaconato permanente hanno la possibilità di far partecipare a diversi incontri le loro mogli: è da ammirare il numero di mogli partecipanti, ciò è garanzia di una crescita e di una presenza sempre più attenta al percorso del diaconato.
Da un’analisi approfondita di quanto è stato proferito durante la giornata regionale dei diaconi permanenti, si può dire che essa è giunta ad una visione più chiara della vita del diacono permanente.
L’esperienza biblica e la bravura degli oratori hanno messo in evidenza che è finito il tempo delle parole, bisogna passare ai fatti e questo mi viene spontaneo dopo aver ascoltato le parole del nostro Cardinale Sepe che l’anno prossimo, probabilmente, ci sarà un plenum sul diaconato: è stata la più bella notizia che potessimo ricevere.
Questa giornata regionale ha dato un nuovo impulso e un nuovo input, ha trasmesso un nuovo entusiasmo al ministero diaconale. Possa il Signore guidarci in questo arduo compito.
*MARINO G., A margine della Giornata Regionale dei Diaconi permanenti svoltasi a Pompei. L’identità del diacono,in Nuova Stagione 11(2018), p.4.