Aborto post – nascita     ovvero l’uccisione di un neonato    -  Alfonso Basso                                                                 

Alberto Giubilini e Francesca Minerva due giovani studiosi italiani docenti a Melbourne (Australia) e membri della Consulta di bioetica, un'associazione culturale di impianto laicista che promuove le tesi radicali sui temi di bioetica, l’11 Marzo 2012 pubblicavano sulla nota rivista scientifica inglese “Journal of medical ethics” l’articolo “After-birth abortion: why should the baby live?”, nell’intento di giustificare la legittimità morale dell’infanticidio in forza dell’analogia con l’aborto, teorie, tra l’altro, già note in ambito bioetico. L’11 gennaio 2013 i due studiosi sono stati invitati a parlare presso l’Università di Torino e hanno ribadito le loro teorie in seno ad un dibattito all’interno del Master in Bioetica diretto dal Prof. Maurizio Mori.

La loro argomentazione è la seguente: alle stesse condizioni per cui si uccide il feto nel grembo della madre dovrebbe essere permessa anche la soppressione dei bambini appena nati.

Entrambi gli autori dell’articolo sostengono che «quando dopo la nascita si verificano le stesse circostanze che giustificano l'aborto prima della nascita, quello che chiamiamo aborto post-natale debba essere permesso».

Aborto post-natale naturalmente sta per “infanticidio”, utilizzando ancora una volta il metodo dell’antilingua, cioè cambiare i termini per rendere più “soft” una tesi altrimenti inaccettabile.

Questo articolo ha suscitato tanto sconcerto che è condivisibile se riteniamo che il grado di civiltà e giustizia di una società si misuri dal modo in cui essa tratta ed accoglie e cresce i suoi figli. Questo perché “i figli”, soprattutto se neonati, essendo totalmente indifesi, fragili, innocenti, necessitano che qualcuno si prenda cura di loro e il modo in cui essi sono trattati diventa, dunque, un indice prezioso per comprendere in che misura una società è rispettosa degli esseri umani come tali.

Ai due autori italiani può essere riconosciuta una duplice “originalità” nell’affrontare questo tema. Da un lato essi coniano un termine nuovo, quello di “aborto post-nascita” per distinguere l’azione che vogliono legittimare dall’infanticidio. Dall’altro articolano la loro argomentazione sostenendo che nel caso in cui il bambino risultasse “indesiderato”, l’aborto post-nascita rappresenterebbe la soluzione preferibile rispetto a quella di una eventuale adozione del neonato. Quest’ultima affermazione, che già sarebbe suffragata da indagini psicologiche, andrà certamente discussa e valutata.

Questi due elementi di novità hanno come presupposto una concezione funzionalistica, per nulla nuova della “persona”, secondo la quale un individuo può essere considerato tale e di conseguenza soggetto morale del diritto alla vita, solamente quando, come scrivono i due autori, essendo cosciente, è in grado di attribuire alla propria vita un valore e un senso in forza del quale percepirebbe come danno l’essere privato dell’esistenza. E’, infatti, solamente a partire da una concezione così riduttiva dell’essere umano che essi possono sottolineare, con una coerenza che gli va certamente riconosciuta, la legittimità dell’aborto pre e post -nascita e sostenere la preferenza dell’uccisione del neonato rispetto alla possibilità di darlo in adozione.

Prima di arrivare a considerare le conclusioni, vediamo più da vicino come Giubilini e Minerva svolgano la loro argomentazione e valutiamone la solidità.

L’articolo si apre dando spazio al riscontro che l’aborto volontario è solitamente considerato legittimo se effettuato in forza di alcune motivazioni e in alcune condizioni. Non apportano, però, motivazioni sostenibili per la legittimità dell’aborto.

A partire, dunque, dalla constatazione che l’aborto è per lo più giustificato nel momento in cui la nascita di un bambino può arrecare danni fisici o psichici alla donna, i due autori si chiedono se tali motivi, qualora insorgano appena dopo la nascita, possano essere ugualmente validi per giustificare l’uccisione del bambino anche dopo la nascita. I casi che essi portano come esempio sono quelli rappresentati da eventuali complicanze intercorse durante il parto, dalla presenza di patologie non diagnosticate o non diagnosticabili prima della nascita, da cambiamenti nella situazione affettiva ed economica dei genitori che li condannerebbe a farsi carico di “un peso insostenibile che non sono in grado di sopportare”.

Il bambino può essere ucciso sia prima sia dopo la nascita in quanto non è ancora una “persona”, ma solo una persona potenziale che non è in grado di dare valore e significato alla propria vita, di essere cosciente di essa, nonché di esprimere desideri e fare progetti per il futuro. Ecco che l’analogia fra l’aborto e quello che loro chiamano “aborto post-nascita” è congegnata come valida per legittimare “per proprietà transitiva”, il secondo termine dell’analogia stessa.

L’articolo di Giubilini e Minerva, tuttavia, è sostanzialmente coerente nel percorso che svolge, ad esclusione di qualche sfumatura, ma muove da una concezione di “persona” che va necessariamente discussa se si vogliono poi valutare con onestà intellettuale anche le conclusioni a cui conduce. La definizione di persona che i due autori propongono è da rifiutare, non in forza di una “opzione di fondo” che, all’opposto, vorrebbe, senza ragioni, tutelare ogni persona considerata da essi potenziale, ma perché non è in grado di cogliere, in tutte le sue sfaccettature, lo specifico darsi effettivo della persona umana.

Essa, infatti, è tale per cui ha bisogno di tempo per potersi sviluppare, ha bisogno cioè di alcune condizioni per poter esprimere al massimo quelle qualità e capacità che i due autori riconoscono ed esaltano come determinanti per riconoscere ad un individuo il diritto alla vita.

Sul piano biologico, al momento della fecondazione viene a costituirsi una nuova entità, chiamata zigote[1]. Essa ha un patrimonio genetico originale, diverso da quello del padre e della madre. Dal momento in cui l’ovulo è fecondato, s’inaugura una vita che non è quella del padre o della madre ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. “Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora”.[2]

Troviamo qui la netta affermazione della discontinuità tra la vita dei genitori e la vita del concepito. Allora è chiaro che siamo davanti ad una nuova realtà vivente di natura umana (ovviamente non potrebbe essere di un’altra natura).

La scienza genetica ha dimostrato come dal primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest’uomo individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dal processo della fecondazione è iniziata l’avventura di una vita umana che “per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale, poiché possiede una piena qualificazione antropologica ed etica. L’embrione umano, quindi, ha fin dall’inizio la dignità propria della persona”.[3]

La capacità di aver coscienza di se stesso, di relazionarsi ad altri, di esprimersi attraverso il linguaggio, sono certamente qualità che mostrano il valore dell’umano e danno ragione della tutela che gli si riserva, ma tale tutela si radica nella condizione ontologica che permette tali eccezionali espressioni e che, come tale, caratterizza ogni essere umano. Tale condizione ontologica, infatti, caratterizza ogni uomo in qualsiasi stadio dello sviluppo e rappresenta la condizione non sufficiente, ma necessaria di quelle capacità così tanto sottolineate dai due autori. Di conseguenza, per non cadere in una definizione arbitraria di persona che, infatti, lascia Giubilini e Minerva in imbarazzo di fronte alla richiesta di “determinare esattamente quando un soggetto inizia o smette di essere una persona” e ad indicare fino a che età l’aborto post-nascita possa essere praticato, l’unica alternativa è quella di riservare il diritto alla vita all’essere umano in quanto tale.

E’ inoltre, riduttivo legare la tutela di un essere umano alla qualità/quantità dei suoi interessi e si mostra arbitraria la decisione di far prevalere gli interessi degli adulti su quelli del neonato che vengono ripetutamente investiti di scarsa considerazione, senza che i due autori, peraltro, chiariscano con adeguata precisione lo stesso concetto di interesse a cui continuamente fanno riferimento. Si può, tuttavia, concedere che gli interessi di un adulto abbiano una portata più ampia, ma è innegabile che anche un neonato abbia degli interessi che, infatti, anche se non sono verbalizzati, risultano evidenti nel suo dinamismo vitale, nella sua richiesta di cibo e nel suo interagire con coloro che si prendono cura di lui fin dai primi giorni.

Per tornare all’analogia, allora, aborto pre e post - natale sono due azioni moralmente equivalenti in quanto neonato e feto sono ontologicamente equivalenti, perché siamo davanti, in ogni caso, ad una “persona” in atto: di conseguenza entrambe queste azioni sono illegittime perché ledono il diritto alla vita di un essere umano dato che pongono fine alla sua esistenza.

Tale conclusione è fondamentale, non solo perché tale diritto è alla base di tutti gli altri, (il diritto alla vita è il primo Principio non negoziabile) ma anche perché il suo riconoscimento in questi termini permette di evitare qualsiasi discriminazione nei confronti degli esseri umani: o essi sono tutelati in ogni condizione oppure cadono inevitabilmente in balìa della legge del più forte. Giubilini e Minerva, infatti. ritengono che lo status morale del nascituro o del neonato dipendano dal valore che gli attribuisce la madre, ossia l’essere umano adulto che ha potere assoluto nei suoi confronti. Se questi sono i termini con i quali è interpretata la generazione umana, allora è ormai stravolto il senso del rapporto genitori-figli dato che il figlio, in questo modo, è visto come un oggetto o un prodotto il cui valore dipende dall’interesse, inteso in termini utilitaristici, della coppia o di quanti  lo hanno messo al mondo.

I due relatori cercano, inoltre, di difendere la loro tesi, affermando che non ci può essere un danno a qualcuno se questo qualcuno non è in grado di cogliere l’azione subita come un danno. Il concetto di danno che essi utilizzano non è adeguato: perché ci sia un danno non è necessario che la persona danneggiata debba accorgersene, ma, potremmo dire, è invece necessario che venga leso un suo interesse. Tale interesse non deve però essere inteso come qualcosa che viene emotivamente percepito dal soggetto, ma come il rapporto oggettivo fra il soggetto e un bene. Nel caso dell’aborto pre o post nascita il bene, non solamente leso ma, addirittura, distrutto in maniera irreversibile, è proprio quello della vita che rappresenta il presupposto di qualsiasi altro bene, la cui soppressione, quindi, non può che rappresentare un grave danno. I due autori proseguono con due chiarificazioni terminologiche. Essi, innanzitutto, precisano che hanno deciso di usare il termine “aborto post-nascita” e non quello di “infanticidio” per sottolineare che lo status morale della persona uccisa è paragonabile a quello di un feto più che a quello di un bambino e, di conseguenza, chiedono di rendere legittima l’uccisione di un neonato in tutti quei casi in cui è legittimo l’aborto. Tale “richiesta” non può essere accolta perché, dato che il processo di crescita dell’essere umano non conosce uno stacco qualitativo, non si può affermare che feto – neonato - bambino abbiano un diverso stato morale e, di conseguenza, va riservata loro la medesima tutela dato che tali parole non indicano delle entità, di fatto, differenti ma semplicemente sono dei nomi che indicano diverse fasi dello sviluppo dell’essere umano a cui spetta, sempre, la tutela.

In secondo luogo, affermano di aver scelto il termine “aborto post-nascita” per distinguere l’azione identificata con tale locuzione da quella identificata dalla parola “eutanasia neonatale” per sottolineare il fatto che l’interesse di chi muore non è necessariamente il primo criterio di scelta che è, tendenzialmente, rappresentato dalla salvaguardia degli interessi delle persone adulte che possono essere messi in pericolo dall’esistenza del bambino. La prassi di risolvere i problemi ricorrendo a delle ridefinizioni raramente funziona e questa decisione arbitraria di chiamare in modi differenti azioni uguali, non riesce nell’intento di avallare un prassi smarcandola dall’accostamento con una parola, quella di “eutanasia neonatale”, che, a livello di opinione pubblica, risulta problematica. Le due azioni, anche qualora fossero perseguite sulla scorta di motivazioni differenti, essendo uguali, rimangono entrambe illegittime avendo come oggetto l’uccisione di un essere umano nei giorni successivi la sua nascita.

I due autori concludono il loro articolo con la tesi innovativa secondo la quale l’aborto post-nascita sarebbe preferibile rispetto all’ipotesi di dare in adozione il bambino indesiderato in quanto opzione meno traumatica per la madre. Come l’uccisione volontaria del proprio figlio possa essere pensata, anche dal punto di vista dell’incidenza emotiva sull’equilibrio psichico di una persona, come scelta migliore rispetto all’adozione, è un mistero che forse solo l’approfondimento degli studi psicologici a cui i due autori fanno appello, senza riportare precisi riferimenti, potrebbe chiarire. Sicuramente, dal punto di vista morale, una prassi di questo tipo non può essere pensata come legittima e risulta sproporzionata perché, per quanto la vita del neonato, nella prospettiva dei due autori, possa godere di scarsa considerazione, essa, di certo, non è a tal punto così priva di valore da far prevalere l’egoismo del soggetto più forte sulla vita del più debole.

Oggi viviamo in società democratiche che hanno come idea fondamentale il fatto che tutti gli esseri umani hanno pari diritti. Per far valere questi diritti si sono versati lacrime e sangue, fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, non a caso scritta dopo il nazismo. La tesi dell’infanticidio mina le basi su cui poggiano tutte le Carte internazionali.

“Infatti Dio, padrone della vita, ha affidato agli uomini l'altissima missione di proteggere la vita: missione che deve essere adempiuta in modo degno dell'uomo. Perciò la vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; l'aborto e l'infanticidio sono delitti abominevoli”.(GS, 51)



[1] Lo zigote è una cellula che si ottiene dalla fusione di due cellule specializzate: i gameti maschile e femminile, normalmente apolidi (n), in una cellula normalmente diploide (2n). Nello zigote è ricomposto il numero dei cromosomi appartenenti alla specie umana che è di 44 autosomi e due cromosomi sessuali, per un totale, quindi, di 46 cromosomi. La singamia è il processo di fusione dei gameti in un unico nucleo.

[2] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Sull’Aborto procurato, AAS 66 1974, 730-747. GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle Famiglie “Gratissimun sane”, n 21 1994, in AAS 86 (1994) 920

[3] Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione “Dignitatis personae”

  BORGONO C., Lo statuto dell’embrione umano nella Dignitas personae, Studia Bioetica vol 2 (2009) n 1, pp. 19-28