La nascita del diaconato permanente a Napoli
Celebrata, nella Basilica dell’Incoronata
Madre del Buon Consiglio,
la Santa Messa per la traslazione
e l’inumazione delle spoglie mortali
di Mons.Ugo Grazioso
La nascita
del diaconato
permanente a Napoli*
di Gaetano Marino
Lunedì 3 ottobre 2016, nella Basilica dell'Incoronata Madre del Buon Consiglio, è stata celebrata la Santa Messa per la traslazione e l'inumazione delle spoglie di Mons. Ugo Grazioso, sacerdote che nel suo apostolato non si è risparmiato, ed è stato docile strumento nell’obbedienza dei superiori, vivendo con fede la volontà di Dio.
Mi preme ricordare e sottolineare un suo discorso fatto il 2 aprile 2009, presso la basilica di Santa Restituta in occasione della presentazione del libro: “Le omelie del cardinale Corrado Ursi”, nel centenario della nascita del porporato. In quella circostanza Mons. Grazioso, nel parlare disse che un “filone della sua intensa opera di pastore fu la diaconia, il servizio a tutti e il servizio di tutti dando vita così alla “Chiesa tutta ministeriale”, documento che fece cambiare la visione dinamica e comunitaria del servizio nelle parrocchie, non solo di quello strettamente sacerdotale, ma di ogni membro del popolo di Dio. Nacque così l’idea della restaurazione del diaconato permanente, voluto dal Concilio.” E fu in quel convegno che don Ugo ricordò con commozione come, nel maggio del 1969, tre anni dopo l’inizio del suo servizio pastorale a Napoli, convocò il consiglio episcopale, sull’opportunità o meno di iniziare il discorso della restaurazione del diaconato permanente. E come egli fu scelto per dare inizio a questa “avventura” nella Chiesa di Napoli.
Fu nominata una commissione per stilare norme e corsi ed individuammo il luogo per accogliere i primi candidati disponibili. In seguito, con un decreto del Cardinale, il 19 settembre 1972 nacque l’Idim, creatura tanto cara ad Ursi, al punto tale da essere chiamato “Istituto unico al mondo”. Il piccolo seme fu accolto nei locali sottostanti la Basilica, ambienti umidi e poco illuminati dalla luce del sole, seguendo le indicazioni del documento della CEI, comunicato il 12 novembre 1970 e reso esecutivo il 15 marzo del 1972. Grazioso fu nominato delegato arcivescovile e guidò la Commissione che stabilì il percorso formativo dei candidati. Si decise la durata del percorso che, inizialmente, fu appena di tre anni, e il 29 giugno del 1975, nella Chiesa cattedrale, furono ordinati i primi 9 diaconi permanenti
Il Cardinale Corrado Ursi aveva partecipato al Concilio Vaticano II, rimanendo toccato nel suo intimo dalla novità dello Spirito, e pieno di entusiasmo adottò una strategia, una nuova pedagogia pastorale che coinvolgeva tutti, ogni membro del popolo di Dio, chiamandolo ad operare, testimoniando con la propria vita al fine di realizzare la diaconia dell’amore. La sua profonda conoscenza dell’indole umana e la voce dello Spirito, gli fecero intuire che Mons. Grazioso era candidato a diventare il suo braccio destro, affinché la voce dello Spirito non fosse soffocata, accettando così umilmente “la volontà di Dio”.
Mons. Francesco De Simone, primo rettore del Tempio, nel suo testamento, ebbe a scrivere “Desidererei che come rappresentante di Sua Eminenza per il Tempio e le opere vi fosse il caro Don Ugo Grazioso”. Questo rafforza il pensiero che tutto è nel piano di amore di Dio. Pertanto, nella Basilica, nel luogo cioè dove ha esercitato per molti anni il suo ministero sacerdotale, riposano ora le spoglie mortali di don Ugo saranno presenti. La presenza delle spoglie mortali del Cardinale Corrado Ursi e di Mons. Ugo Grazioso nel Tempio ci danno l’impressione che continuino a vegliare sul diaconato permanente, una “creatura”, che ha bisogno di essere conosciuta dal popolo di Dio, amata, formata, accompagnata con rispetto per essere presenza preziosa, chiamata a servire l’umanità in Cristo, sull’esempio del Cristo buon Samaritano e che lava i piedi.
*MARINO G., Celebrata, nella Basilica dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio, la Santa Messa per la traslazione e l’inumazione delle spoglie mortali di Mons. Ugo Grazioso. La nascita del diaconato permanente a Napoli, in Nuova Stagione 36(2016), p.4.
IL CORAGGIO DI PARLARE
IL CORAGGIO DI PARLARE*
di Gaetano Marino
Non è la prima volta che la lettura di eventi socio-familiari cambiano il nostro modo di pensare, di agire. In questo tempo, diversi cambiamenti sociali sono favoriti dall’evoluzione dei sistemi informatici che velocizzano la conoscenza di fatti, coinvolgendo tutti e strumentalizzando la crescita individuale e collettiva per fini specifici, per cui bisogna sempre vegliare, difendersi per non essere coinvolti in piani prestabiliti e studiati da chi vuole appiattire la cultura umana e sociale oscurando il dettato propostoci dalla Chiesa.
Il sommo pontefice ha ritenuto importante proclamare l’anno della Misericordia per darci la possibilità di fare chiarezza in noi stessi per modificare il nostro atteggiamento nei confronti di quanti incontriamo sul nostro cammino: una profonda lettura, un’esperienza di vita che deve aiutarci a capire che ci sono valori che vanno condivisi con tanti e, che continuamente hanno bisogno di essere rivisti, ricercati, portati alla luce della fede facendo spazio nella propria vita agli altri; il bisogno di amare per essere amati, avere un cuore consapevole delle proprie miserie, asserire e credere che è l’amore che condiziona la nostra e l’altrui vita.
Forse questo non è relazionarsi con Dio che ama con il mio amore, che opera con le mie mani? La figura di noi diaconi, profeti di Misericordia, può essere stimolo per gli altri a cambiare vita. Ma cosa significa profezia diaconale? Il profeta è colui che ha il coraggio di parlare senza cedere a compromessi o ad accomodamenti personali; questo esercizio profetico lo vive, anzitutto, negli ambiti di vita: scuola, lavoro, famiglia. Essere profeti di Misericordia significa annunciare la giustizia perché nella S. Scrittura la Misericordia e la giustizia camminano di pari passo. Attraverso questo annuncio, il diacono è capace di cogliere le difficoltà e di portare il dono della Misericordia di Dio nelle situazioni di marginalità dove si possono leggere tanti “bisogni”: fame di giustizia, di conoscenza, di etica.
Si pensi all’incerta situazione della mancanza di lavoro, del precariato, che causano profonde ferite, in particolar modo, bisogna stare attenti ai giovani che sono i più vulnerabili e rappresentano il futuro, la continuazione della società odierna affinché non perdano la speranza nel proprio domani, superando l’incertezza, ed avendo, invece, fiducia nelle istituzioni che attuando piani educativi diano la possibilità di un lavoro per tutti. E’ necessario essere guardinghi verso coloro che procurano disagi, che pensano solo a se stessi creando malesseri nella collettività e instabilità rendendo difficile la comune convivenza. La mancanza di lavoro e la difficoltà ad accettare una condizione precaria coinvolge la stragrande parte di giovani e diventa deleteria per persone in avanzata età, non più giovanile e favoriscono disuguaglianze socio-economiche per cui il futuro diventa sempre più incerto.
Nell’universo della scuola mi sembra leggere la crescita di un diaframma tra il mondo giovanile e mondo adulto. Troppe cose sono scontate, tutto rientra nell’avere. Mi pongo una domanda: i giovani ricevono gli input necessari per prendere coscienza che non tutto è dovuto, scontato, che ogni cosa parte da un serio impegno personale e il proprio avvenire lo si costruisce insieme con fatica, corresponsabilità, mediante la scoperta di valori che coinvolgono tutta la persona fino a tracciare linee programmatiche per una società più giusta a misura d’uomo? Mai lasciare nei giovani segni di incertezza sociale che non portano ad una crescita, infatti li allontanano dalla realtà, offuscando la loro visuale, il loro agire. Bisogna essere capaci di dare ad essi le basi necessarie e indispensabili per un futuro migliore, per crescere insieme, per scoprirsi padre e madre; non lasciarli mai a se stessi, soffrendo con loro, facendosi solidali nella vita.
La scuola deve dare gli elementi necessari e indispensabili affinché i giovani possano avere un’istruzione che miri non solo ad allargare gli orizzonti conoscitivi, ma anche a prendere coscienza del loro avvenire e i genitori non devono ostacolare, come spesso accade, la formazione in questa direzione. La scuola e la famiglia devono essere unite per garantire il futuro, come percorso di vita. La famiglia oggi è bersagliata da tante parti, vive forti preoccupazioni, considerando che ogni progresso sociale comporta un regresso, non è facile cambiare modi di vita da una generazione all’altra, il tempo è garante di tale necessità. La famiglia viene mortificata. Quante famiglie ferite: si pensi alle facili separazioni, divorzi, convivenze.
Queste realtà procurano ritorsioni tra adulti, problemi affettivi e psicologici nei minori che si porteranno queste ferite per tutta la loro vita che se non curate, tempestivamente, potranno facilmente, diventare cancrenose fino a creare soggetti fragili ed insicuri. Credo, fermamente, che noi diaconi oggi, dovremmo essere respiro di chi affanna nella vita, solidali con chi soffre, presenza dove si avverte la solitudine, l’abbandono, l’egoismo, la cattiveria, testimoniando con elementi di apertura, di speranza in nome di Dio. Il diacono, essendo sposato ed avendo una famiglia propria ha una visuale più ampia, sa come mettersi in gioco, è capace di sporcarsi le mani valutando i reali problemi: un consacrato che ha il coraggio di parlare, di denunciare per testimoniare concretamente il disagio di tanti che vengono mortificati dall’egoismo di pochi, considerando che la Misericordia senza giustizia non è Misericordia, è semplice giustizialismo.
*MARINO G., Il coraggio di parlare, in Il diaconato in Italia, 197/198(2016), pp. 87-88.
Misericordia e giustizia nella vita del diacono
Misericordia e giustizia nella vita del diacono*
di Gaetano Marino
Se diamo uno sguardo intorno ci accorgiamo che siamo circondati da tante miserie, che se non individuate ed affrontate singolarmente possono con il tempo trasformare il ritmo vitale del singolo e della società tutta, portando al regresso umano-sociale: è necessario per cui fare un’attenta analisi per leggere ciò che siamo in questo preciso momento storico. Non è esagerato affermare che c’è un grande male che colpisce tutti: la “solitudine”; un male silenzioso che crea isolamento, capace di lasciare senza aiuto tanti, che colpisce non solo la persona anziana e si manifesta, pur vivendo in mezzo alla gente.
Questa grande solitudine si avverte sempre più nella società, nelle famiglie dove si sceglie di vivere da soli preferendo l’assenza al confronto. Oggi, ad aggravare la situazione c’è lo sviluppo globale dei servizi d’informazione, che non vengono usati per dare opportunità di conoscenza, ma attraverso PC, palmari, smartphone e tablet, l’individuo, distraendosi dal reale, si connette con il mondo intero e preferisce il contatto virtuale al rapporto umano, al confronto: un’anomalia che priva della dimensione del privato, del contatto con gli altri, tutto passa attraverso la singola persona, per cui diventa difficile la conoscenza dell’altro. In questo modo, chiunque può comunicare con il mondo intero, ma chiuso tra le quattro mura.
Facilmente, ci si sente incompresi, non accettati, non valorizzati perché viene a mancare la “relazione” per cui tutto porta a vivere la solitudine e, non sentendosi capiti, con il tempo viene a mancare quella forza che l’insieme dà. Tutto ci crolla addosso, assottigliando sempre più il senso dell’altro, come partecipazione primaria di vita.
E’necessario che l’uomo prenda coscienza di ciò per poter uscire da se stesso e trovare quella forza interiore per poter leggere e vivere opportunità che costruiscono il tessuto sociale. La lettura interiore è importante, da essa possiamo avere delle risposte a cui far seguito: se ci leggiamo dentro, senza sentire lo sguardo di un altro che ci ama e ci accompagna, rischiamo di rimanere bloccati sotto il peso delle nostre univoche decisioni. Abbiamo bisogno dello sguardo di qualcuno che ci liberi da questa empasse e ci guarisca. Questa è un’esperienza di fede, che permette una visione, semplicemente umana, che apre alla speranza. Oggi, i ritmi di vita sono super accelerati, si corre sempre e alla fine della giornata sembra di percepire l’amaro in bocca per non aver potuto fare tutto ciò che ci si era prefisso. Ci si sente quasi feriti, frustrati per qualcosa che è rimasto in sospeso. Tutto ciò non dà spazio all’interiorità, cerca in tutti i modi di mettere un velo che non lascia trasparire niente, siamo schiavi di un’economia che ci fa comprare le cose a forza, per cui non riusciamo a discernere l’essenziale. Il bombardamento psicologico della pubblicità di prodotti è deleterio e punta a delle scelte, non sempre volute.
Tutti questi atteggiamenti portano a vivere con superficialità, determinando con il tempo “l’indifferenza”, che è nemica delle persone, un’azione che oggi, in modo particolare è vissuta sia dai non credenti che da tanti fedeli nella Chiesa. Si aggiunge a questo la “paura del diverso” (emigranti, stranieri, poveri). Accettare gli stranieri, manifestando fraternità, rispetto per la loro dignità, significa vivere la Misericordia di Dio.
Io come uomo, non appartengo solo a me stesso, ma sono chiamato a vivere la presenza di Cristo nell’altro, chiunque sia, pertanto le sue difficoltà devono essere percepite, vissute e insieme proiettate a vivere la Volontà di Dio. Il Signore ci usa Misericordia nell’isolamento e ci fa trovare la comunione, ci fa apprezzare la famiglia.
Occorre imparare a stare insieme nel rispetto, nella stima, nella fiducia, nella pazienza, nella carità, rispettando i ruoli degli altri, rimanendo umili. Dio ci aiuta a capire e cambiare, ci lascia liberi nelle nostre scelte (immagine di sé, carriera, denaro) che, in modo improprio, a volte, pretendono di riempire il nostro senso di infinito, ma spesso, resta in noi un vuoto immenso da colmare,abbiamo bisogno di una parola che rompa la crosta che si è formata intorno al nostro cuore. Ogni cristiano è chiamato a discernere nella sua vita la Misericordia di Dio, che è sempre giustizia e non buonismo accomodante.
*MARINO G., Misericordia e giustizia nella vita del diacono, in Il diaconato in Italia, 199(2016), pp. 49-50.
Giubileo della misericordia e diaconia
Giubileo della misericordia e diaconia*
di Gaetano Marino
In quest’anno della “Misericordia” noi diaconi siamo sempre più chiamati ad esercitare il ministero della carità verso le persone più fragili. Esse devono essere presenti nel cuore, nei pensieri, continuamente considerate ed amate, perché attraverso di loro si scopre il volto sofferente di Cristo, una perla preziosa che aiuta a vivere il diaconato come cammino di fede, capace di ricostruire un tessuto lacerato dalle dinamiche della vita socio-familiare. Questo non è forse vivere la pastorale della presenza? Tale agire ci porta a dare una risposta dove il dinamismo ecclesiale si manifesta: poter avvicinare e farsi prossimo, vivendo una spiritualità che aiuti a mettere in atto l’azione di Cristo che nell’agire diventa modello da seguire, vivere e trasmettere considerando che Dio ama ed opera mediante il diacono che si presenta nel Suo nome e diventa segno di unità e di amore: un contagio, capace di dare una risposta al dono dell’amore di Dio. Il diacono attraverso gesti concreti sta vicino a chi ha bisogno di essere liberato dai mali e in particolar modo ai più deboli.
Viviamo l’anno giubilare in cui le opere di misericordia corporali rappresentano per noi diaconi una presa di coscienza ed una precisa risposta verso gli ammalati, gli emigranti, i carcerati, ecc. Queste categorie di persone dovrebbero essere pensiero fisso, pane quotidiano, scoperta del tesoro divino che ci fa servi e santi per realizzare ciò che gli apostoli hanno sancito per i “sette”: non una semplice presenza, ma una concreta risposta a realizzare il progetto di Dio, un’azione pastorale che ci chiama a servire calandoci nelle piaghe dell’umanità, facendole nostre.
Diversamente, può annidarsi la consuetudine di compiere tante azioni pastorali fino ad eludere ciò che è il fondamento del diaconato. E’ opportuno scoprire il senso ed il valore del Vangelo perché viverlo significa riconoscere i segni dei tempi e darne una precisa risposta con la propria vita, non si possono togliere i poveri dal progetto di Dio, per questo è necessario dare un’opportunità agli ammalati che aspettano in quanto la malattia interrompe l'abituale ritmo di vita, mette in crisi i soggetti, fa perdere o modifica i ruoli professionali e familiari, procurando un disorientamento della propria identità. Quanta solitudine una malattia può causare fino a far chiudere la persona in se stessa, quanta sofferenza per i familiari che non sempre sono preparati ad affrontare una patologia che li schiavizza, li opprime ed ostacola il loro agire quotidiano. E’ qui che il diacono, con la grazia sacramentale ricevuta, può essere valida presenza, attento al rispetto dei tempi dell’altro, conoscere meglio il sofferente ed i suoi familiari creando opportunità nuove attraverso una sana relazione che liberi dalla chiusura, dall’abbandono fino a diventare dono.
A Napoli, nella zona Scampia e Secondigliano, dove i problemi sono molti, la sofferenza è luogo comune, si tocca con mano: degrado, perdita del senso di Dio, della famiglia e del rapporto umano. La stessa presenza del carcere in questo territorio ci spinge a dare una precisa risposta a questi nostri fratelli operando nell’ascolto, nella preghiera e nella carità, dimostrando sete di conoscenza e apertura ai loro bisogni, avvicinando laddove è possibile anche le loro famiglie. Si pensi, come riportato dal settimanale diocesano di Napoli “Nuova Stagione” del 17 gennaio 2016, che “sono stati creati gruppi di alfabetizzazione per stranieri, iniziative che vengono estese fino ai servizi territoriali: un lavoro di rete fra la parrocchia del territorio, il centro di ascolto e la pastorale carceraria per favorire l’integrazione, evitando il deserto e favorendo nuove prospettive di vita”.
Circa gli emigranti che fuggono dai loro paesi, tormentati da evidenti paure, smarriti, delusi, in preda all’angoscia, non mancano iniziative atte a farsi prossimo, sono sempre monitorate per poter dare quell’aiuto necessario, mirato al bene di questi nostri fratelli, che mancano di tutto e sono pronti a rifarsi una nuova vita, superando l’impatto con una cultura diversa dalla loro, l’incognito del domani: i loro sguardi manifestano un bisogno, l’esigenza di essere trattati da esseri umani, di avere la possibilità di superare il presente per percorrere la strada esistenziale con la speranza di potersi integrare.
Prezioso è relazionarsi con loro dopo il primo soccorso, saperli ascoltare, asciugare le loro lacrime, sporcandosi le mani per tutto ciò che si può fare, lasciando nel loro intimo una traccia di amore che, certamente, con il tempo crescerà dando copiosi frutti.
Queste tre opere di misericordia corporale, esercitate dai diaconi, possono coinvolgere tante famiglie, a partire dalla propria, come partecipazione ad un amore che si allarga a macchia d’olio. La famiglia del diacono, diaconia di amore, deve dare una continua risposta al “si” che unisce e rende portatori di speranza, incarnando le parole di Cristo nel Vangelo di Mt 25,40: “Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. *MARINO G., Giubileo della misericordia e diaconia, in Il diaconato in Italia, 196(2016), pp. 23-24.
La fede scaturisce dall'ascolto - La diaconia del servo di Jahwè
La fede scaturisce dall'ascolto
La diaconia del servo di Jahwè
Rosanna Virgili
«Un angelo del Signore parlò intanto a Filippo: "Alzati e va' verso il mezzogiorno sulla strada che va da Gerusalemme a Gaza, essa è deserta". Egli si alzò e si mise in cammino». Questo è un racconto fondamentale per la figura del diacono nel Nuovo Testamento. Ho letto Atti 8, 26-27a.
Filippo è un diacono e fa parte di quel collegio che era stato creato dal collegio degli apostoli per un'esigenza delle chiese. Bisognava svolgere un servizio molto concreto, condividere le cose in maniera equa, accorgersi delle persone presenti, fare in modo che non ci fossero ingiustizie. E siccome gli apostoli dovevano occuparsi dell'annuncio della Parola, si crea il bisogno di istituire i diaconi legati alle mense ed al servizio di esse.
Tra i diaconi, ancor prima di Filippo che possiamo considerare un gigante tra i diaconi, c'è Stefano. Il capitolo precedente, infatti, è una sorta di rilettura di tutta la storia biblica della salvezza nel discorso pronunciato da Stefano. Questi diaconi servivano le mense, ma facevano anche qualcosa di molto più importante. Se noi riteniamo quel servizio delle mense solo una sorta di 'camerierato', allora dobbiamo affermare che i diaconi sono qualcosa di più! Stefano è il grande ermeneuta del Primo Testamento riferito a Gesù.
Non potremmo conoscere Gesù senza il discorso di Stefano, non potremmo sapere chi sia Gesù nel lungo percorso dell'amore di Dio verso il suo popolo, se non avessimo il capitolo di Atti 7. Stefano diacono, dunque, è il primo grande pilastro della Chiesa. È il protomartire, lo festeggiamo non a caso il 26 dicembre. E sul sangue dei martiri nasce la Chiesa.
Credo che non per nulla Luca abbia introdotto per la prima volta la figura di Paolo nella vicenda di Stefano. Paolo era chiaramente tra coloro che lapidarono Stefano, la sua è un'entrata un po' brusca, ma poi sappiamo come Paolo diventerà un grande apostolo anche dell'Occidente, tanto è vero che il libro degli Atti si chiuderà a Roma in un appartamento preso a pigione, dove questi si intratteneva con le persone e annunciava il Vangelo.
Quindi prima Stefano e ora Filippo. Filippo era un apostolo di Samaria, un diacono apostolo. Gesù agli inizi degli Atti aveva chiesto agli Apostoli di annunciare e aveva dato loro una consegna: voi annuncerete questo Vangelo a partire da Gerusalemme. Gerusalemme, quindi, diventa la prima città da evangelizzare. In seguito aveva citato la Samaria, salendo verso il Nord. Cominciamo allora a pensare che essere diacono delle mense fosse qualcosa di gran lunga maggiore rispetto a quello che un buon cristiano della domenica possa pensare.
Il diacono non è un semplice cameriere. Assolutamente no! È invece un grande apostolo. Se pur i diaconi servivano le mense occorre dire che queste non erano delle semplici cene poiché contenevano un primo momento di condivisione del cibo e, un secondo momento, della memoria della Cena del Signore. Quindi, c'era una funzione da parte del diacono, potremmo dire ante litteram, sacramentale. Era così che si servivano le mense.
Anastasi!
Tornando al brano iniziale, si può seguire quasi come con una telecamera e in modo dettagliato in che cosa consiste l'azione del diacono. Un angelo del Signore parlò a Filippo. Primo protagonista di questa narrazione è un angelo che parla a Filippo e che diventa il regista di quello che accade nella sua vita. «Alzati e va'». È questo il comando dell'angelo. Anastasi! Anche il Signore si alza quando risorge!
Quindi viene detto a Filippo: Alzati! Prendi con te la forza del Signore Risorto e va' verso il mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme verso Gaza. Nella lingua greca Gaza significa "tesoro", ma in questo caso è un nome proprio. Noi ci aspetteremmo che l'angelo dica a Filippo che c'è della gente su quella strada, invece gli dice che è deserta, non c'è nessuno.
Mettiamoci nei panni di Filippo in questo momento. Noi avremmo forse risposto all'angelo: ma che ci vado a fare? Perché devo andare su una strada dove non c'è nessuno? Invece Filippo non replicò, fece silenzio e si alzò. La sequela è il primo atto di questo diacono: alzarsi e andare. L'Etiope appare quando lui si è già alzato. "Seguire" significa alzarsi e andare senza chiarire perché si vada. Ecco che a questo punto appare un etiope, un eunuco funzionario di Candace, un servo potremmo dire della regina perché sovrintendeva a tutti i suoi bisogni e che si trovava lì perché era venuto per il culto a Dio in Gerusalemme.
Chi è questo personaggio allora? Intanto è un etiope. Chi sono costoro nella Bibbia? Sono tutti gli africani esclusi gli egiziani, i quali hanno dei nomi ben precisi perché l'Egitto è un mondo molto conosciuto nella Bibbia. Tutti coloro che invece restavano sotto, ovvero nelle cateratte precedenti del Nilo erano etiopi. L'Etiope ha un grande problema che è quello di avere la pelle scura
Quindi di chi è figlio? Secondo il mito di origine delle razze umane che troviamo nella Bibbia in Genesi nella storia del diluvio riferito a Noè, questi sopravvive e diventa il padre dell'Umanità. I suoi figli sono tre: Sem, Cam e Iafet che corrisponderebbero alle tre razze del mondo.
L'Etiope è figlio di Cam che è il figlio meno nobile di Noè. Cosa ha fatto per essere considerato tale? Noè una sera si era ubriacato e Cam ha visto tutto. Quindi su questo figlio c'è una maledizione. Mentre i figli di Sem sono i prediletti, potremmo quasi dire che sono i figli di Dio, cioè i Giapetici (discendenti di Jafet) tutti coloro dalla pelle bianca, i Camiti restano nell'ombra. Qui c'è un ossimoro. Da Filippo diacono di Samaria, popolo prediletto, si passa all'opposto, al popolo lontano sia per il colore della pelle nera sia perché su di essi c'è un'antica maledizione, sia perché l'uomo in questione è un eunuco.
Nell'economia della salvezza è l'uomo maschio più infelice che possa esistere sulla terra. È infelice perché non può ricevere né godere della benedizione di Dio che, per l'uomo biblico è la ricompensa per il giusto che crede. Abramo credette e gli fu accreditato come giustizia, si legge nelle Scritture. La benedizione consiste nel benessere, nella ricchezza fatta di prosperità, fecondità, del poter mangiare e costruire case. In una parola significa poter dare spazio alla vita. Dio benedice chi crede in Lui.
Il secondo grande segno della benedizione, è la salute, la lunga vita. Abramo aveva 175 anni quando muore! Nella Bibbia essere vecchio significa essere sazio di giorni, non dunque qualcosa che si toglie e se ne va, ma è pienezza della vita. Abramo muore perché sazio, pieno di vita: ormai è pronto a ricongiungersi, a riconciliarsi con i suoi padri.
Mentre moriva, inoltre, con lui c'erano i suoi figli: Isacco e Ismaele segno di una vita che infrange il muro del tempo di un'esistenza individuale perché si possa vivere in pienezza. Quando si muore, ci si riconcilia con i padri e si diventa futuro con i figli. Ecco allora il terzo motivo della benedizione di Dio: i figli.
Questi ultimi per un uomo, soprattutto genitori di figli maschi, sono segno di immortalità. Zacar significa appunto "immortalità" ed è il termine con cui vengono indicati i figli maschi. La prima forma di immortalità è il maschio. Da dove vengono i figli? Dal seme, dallo sperma. Paolo parlerà di Gesù come sperma di Abramo.
Il seme di un uomo che crede, che è alleato con Dio, passa attraverso un membro circonciso. Figlio di Abramo è Isacco, il figlio della promessa. Avere figli, nella Bibbia, è un fatto prevalentemente religioso perché l'uomo che ha figli è un uomo fedele. I figli passano attraverso la sua fisicità di cui la circoncisione ne è segno, sono frutto non della biologia, ma dell'Alleanza con Dio di cui il segno concreto è appunto la circoncisione.
Queste tre cose sono negate all'eunuco! Lui è un impotente, è un personaggio tagliato fuori da tutto, perché non avere figli significa anche non avere una famiglia, non avere dei beni. Non per nulla egli sovrintendeva ai beni di un altro. Non poteva avere nulla di quanto descritto finora come seme e benedizione di Dio. Dove andava, allora, questo eunuco? Proveniva dal Sudan, dove con molta probabilità si trovava Candace, aveva fatto un lungo viaggio.
Lui è un uomo impotente che cerca e lo dimostra il fatto che va a Gerusalemme. Non sappiamo come avesse fatto a sapere che lì ci poteva essere una speranza, ma sappiamo che la ricerca supera ogni logica umana. Lui non conosce il Dio degli Ebrei, non conosce Gesù ma è un uomo che non si rassegna perché si sente legato alla vita.
Da Gerusalemme, dunque, l'eunuco se ne tornava seduto sul suo carro da viaggio. Sicuramente era stato nel cortile dei Gentili, luogo dove poteva accedere un eunuco etiope e aveva conosciuto il profeta Isaia. Si portava dietro, nel suo carretto, forse la perla più preziosa di quel viaggio, la speranza racchiusa in quel rotolo del profeta. Tornava leggendo. Intanto lo Spirito dice a Filippo: «va' avanti», cioè corri, accelera. In Luca lo Spirito e l'angelo sono sinonimi l'uno dell'altro, sono sempre uniti.
All'inizio del brano è un angelo che invita Filippo, ora è lo Spirito che lo invita a raggiungere quel carro. È una gara di velocità che gli viene richiesta perché se Filippo fosse arrivato un minuto dopo non avrebbe incontrato il carro dell'eunuco. Questa è la vera diaconia! Arrivare un attimo prima. Dove? Sulle strade del mondo, sulle strade di chi cerca e che un diacono deve conoscere, altrimenti la sua ricerca non sarà mai una diaconia.
Un diacono deve sapere se c'è un carro che è salito a Gerusalemme e che sta scendendo ma che non ha trovato tutto. Filippo allora corre perché se vuole incrociare quel carro deve correre (ricordiamo la corsa del discepolo che ama verso il sepolcro vuoto: è l'amore che fa correre). Filippo allora raggiunge il carro e nota che l'eunuco sta leggendo il profeta Isaia. Essere diacono significa innanzitutto: sequela, gambe buone e piedi buoni per correre e andare avanti, ascoltare. La diaconia dell'orecchio.
La diaconia è l'urgenza dell'ascolto. Il primo che nella Bibbia ascolta è Dio (cf. Esodo 4). C'è un grido del popolo a cui hanno ucciso i figli maschi, che non ha nessuno che lo difenda e che gli consenta diritto e giustizia, nessuno che gli riservi un territorio, uno spazio in cui vivere che è, tra l'altro, il primo atto di giustizia e di diritto alla vita. Dio ascolta il grido, il sangue di Abele che grida dalla terra (cf. Gen 4,10).
Nella Bibbia Dio viene catturato dal grido, si lascia tirare, perché ha l'orecchio fine. Il primo atto d'amore di Dio, dunque, è ascoltare. È il primo atto di dialogo perché è apertura senza risposte già precostituite prima ancora di ascoltare l'altro. Quante volte si va ad evangelizzare con risposte già pronte senza alcuna volontà di aprirsi all'esigenza di chi incontriamo. Qui sta il punto.
Qui entra in gioco anche la rivoluzione del Concilio Vaticano II che ci ha riconsegnato nelle mani le Scritture perché imparassimo. La vera rivoluzione sta nell'aprire l'orecchio al mondo, se non abbiamo il coraggio di sentire il morso delle domande che ci vengono rivolte, del sangue che ricopre quelle domande di chi sta tra la vita e la morte, se non abbiamo il coraggio di mettere il nostro stesso corpo davanti a queste domande, non potremo mai annunciare.
La lettura del profeta Isaia
Quando Filippo raggiunge il carretto ode che l'eunuco sta leggendo Isaia. Il cammino dell'eunuco passa per quella strada e attraverso la lettura del profeta Isaia. Da quello stesso luogo deve partire l'opera di evangelizzazione di Filippo che chiede se ha compreso quanto sta leggendo. Questa è carità autentica! Carità è aiutare a comprendere, è ermeneutica.
Aiutare a comprendere la Parola è far sì che quelle parole possano entrare nella vita. Potremmo conoscere tutti i libri del mondo, ma se nemmeno una parola ci è entrata nel profondo per trasformare la nostra vita, se nemmeno una parola è stata capace di risvegliare le nostre attese è come non aver conosciuto nulla.
Alla domanda di Filippo, l'eunuco risponde: «E come potrei?» Con tale risposta mostra tutta la sua intelligenza ed il suo autentico desiderio di sapere. Coloro che incontriamo sono alla ricerca, in cammino e noi siamo chiamati a superare il senso manicheo che ci fa credere che tutto quanto viene dal mondo non è buono. La strada ed il cammino sono comuni: ci si incontra sulla stessa strada e compiendo lo stesso cammino.
Si può comprendere la Parola solo spezzandola con un altro, non può essere vita se non la spezziamo, se non compiamo quel gesto che si ripete in ogni celebrazione dalla Liturgia della Parola a quella Eucaristica. Chi fa comprendere ed apre la strada compie un gesto di fraternità, si fa comunità, si fa Chiesa. L'eunuco, allora, invita Filippo a salire e a sedergli accanto.
Ecco un altro aspetto della deontologia diaconale. Non è il diacono che chiede di salire ma è lui stesso che aspetta di essere invitato a farlo. L'eunuco sente dentro di sé che Filippo è sintonizzato con lui e che gli potrà venire qualcosa di buono e così lo invita a salire. In questo gesto il grande diacono Filippo chiamato ad annunziare Gesù e che si trova in basso sulla strada è chiamato a salire sul carro dell'eunuco, di colui che è impotente.
Rovesciamento di una situazione! Paolo ci ricorderebbe che quando siamo deboli è allora che siamo forti (cf. 2Cor 12,10) e chi vuoi essere grande deve dimostrarsi ed essere piccolo, deve farsi diàkonos, doùlos: questi due termini sono quasi sinonimi e li troviamo come comune atteggiamento in Maria, la Madre di Gesù.
Con questo atteggiamento Filippo sale sul carro e si siede accanto all'eunuco, non parla dalla cattedra mentre l'altro ascolta, ma si pone accanto a lui orizzontalmente, si siede vicino per spezzare quella Parola. Il passo che l'eunuco sta leggendo è Isaia 53,7 e seguenti. «Come una pecora fu condotta al macello, come un agnello che non ha voce, muto davanti a chi lo tosa. Non apre la bocca». Troviamo una metafora in questi versetti poiché si parla di un personaggio che viene consegnato alla morte e non ha voce, cioè non ha nulla con cui potersi difendere, non può nemmeno belare ovvero non può gridare per opporsi.
Con la voce si grida, si piange, si chiede ma a costui viene negato persino questo. Il grido è la prima grande pagina della storia della salvezza. Il sangue grida e Dio ascolta, Dio arriva a soccorrere. A questo personaggio è negato anche questo: non apre la sua bocca, è un umiliato a cui viene negato il diritto, il giudizio che lo ha condannato è stato sommario.
Pensiamo alla morte di Gesù. Non certo la legge romana né la Torah lo hanno condannato a morte, ma la folla ha gridato la morte. Occorre stare attenti alle folle, anche le grandi tragedie del '900 sono venute dalla folla. Dunque al passaggio di questo muto condotto al macello si voltavano pensando che fosse maledetto da Dio.
C'è un raggio di speranza che però viene fuori da tutto questo buio, che emerge dalla Parola letta dall'eunuco, c'è una spaccatura che ammorbidisce la durezza ed è data dal versetto: «La sua posterità chi potrà mai descriverla?» (cf. Is 53,10). L'eunuco comprende di trovarsi di fronte ad una evidente contraddizione. Come mai a questo tale a cui è stata negata una terra, il giudizio, il presente, il futuro, potrà avere una discendenza? Chi mai la potrà conoscere questa discendenza se il futuro gli è stato negato?
Così l'eunuco prega Filippo di spiegargli il significato delle parole, glielo chiede con una preghiera accorata, una domanda profonda e non una semplice curiosità. Per lui capire questo è veramente importante, è questione di vita o di morte. L'eunuco vuole scoprire di chi il profeta afferma tutto questo, se di se stesso o di qualcun altro. Sappiamo bene che dietro questa domanda si cela la evidente risposta legata a Gesù. Filippo può finalmente parlare di Gesù e annunziare la Buona Novella.
Il servo è Gesù, è lui che ha parlato di se stesso come servo in Lc 22,26: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» e in Mc 10,42 quando nel discorso ai figli di Zebedeo rivela la sua identità: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuoi essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuoi essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita i n riscatto per molti».
La diaconia è il rovesciamento delle relazioni umane. Nelle relazioni umane di ogni genere chi governa è sempre colui che domina, cioè che sta sopra. Gesù invece chiede a chi governa di stare sotto. Filippo è salito, non è partito dall'alto. L'eunuco dopo aver ascoltato la Buona Novella di Gesù, raggiungendo il posto dove c'è l'acqua chiede di essere battezzato. Perché? Quand'anche avesse saputo che quanto annunziato da Filippo era stato detto da Gesù e che il profeta parlando di quella pecora muta si riferiva a Gesù, perché vuole entrare nel simbolo del Battesimo che lo innesta a Gesù, nel legame con Lui?
L'eunuco comprende che è anche di se stesso che il profeta sta parlando. Quella Parola fa uscire l'eunuco dalla sua impotenza. Questa è la meraviglia della fede cristiana e della Parola condivisa e spezzata. Qui le diaconie sono tre: c'è un diacono delle mense che è Filippo e parla ad un diacono della regina di Candace ed annunzia un Dio diaconale che è Gesù.
La diaconia è un mistero d'amore che trasforma la debolezza in potenza e forza. Ed ora non posso concludere senza citare le donne. In Marco 10 troviamo scritto: «Chi vuoi essere grande tra voi si farà vostro diàkonos, e chi vuoi essere il primo tra voi sarà il doùlos». Sottolineo come già detto che diacono e servo in Marco sono sinonimi e Maria, la Madre di Gesù è figura di entrambe. Perché così come l'eunuco anche una vergine è impotente, non può dare alla luce dei figli, il suo grembo è un grido perché è vuoto.
Per avere figli, per portare fuori il desiderio del frutto deve chiedere la pioggia simbolo della fertilità femminile. Maria come vergine è ancora più impotente delle donne anziane che però sono sposate, come Sara. La verginità è intesa come estrema impotenza che però diventa grido. Un ultimo sguardo lo voglio dare al brano di Luca 10,38 riferito a Marta e Maria.
È sottolineato anche qui come Marta era presa dai molti servizi, ovvero da 'pollen diakonian'. Marta era dunque una diaconessa, così come lo era Febe che ritroviamo nella Lettera ai Romani 16,1 in cui è scritto di Febe come diàkonon della Chiesa di Cencre. Purtroppo l'ultima traduzione della Bibbia del 2008 ha trasformato quella del 1974 e ha sostituito «Febe diaconessa della Chiesa di Cenere» con «la nostra sorella Febe che è al servizio della chiesa di Cencre». Questo non va.
(trascrizione non rivista dall'autrice)