LO STATO DEL DIACONATO NELLA CHIESA ITALIANA - Pag. 3

ministero stesso. Ci troviamo di fronte ad una realtà esperienziale di cui bisogna prendere atto: da una parte il dato della estrema varietà delle condizioni pastorali delle singole chiese locali; dall’altra l’eccessiva, e a volte ingiustificata, prudenza pastorale. Si tratta di un cambiamento di mentalità che merita di essere approfondito, per comporre gli aspetti contraddittori presenti sul territorio e ricondurre la diaconia ministeriale alla radici profonde della sua identità. Anche se le modalità di impostazione e di sviluppo del diaconato appaiano differenziate e, per molti versi, ogni realtà locale costituisce un caso a sé, è possibile, tuttavia, individuare determinati problemi ed alcune tendenze comuni a tutti le diocesi, grandi e piccole, partendo dall’avvicendarsi delle generazioni.
Tre diverse generazioni di diaconi
Dal Concilio ad oggi si sono succedute tre diverse generazioni di diaconi.
La prima generazione basava il suo servizio su quel trinomio Chiesa, Eucaristia e Carità che permetteva di coniugare il ministero liturgico con il servizio ai poveri. Il contributo offerto da questa generazione di pionieri fu importante sul piano della testimonianza, ma risultò tuttavia ancora debole a livello della formazione teologica e ministeriale. Dentro la nostra Chiesa c’era, durante quegli anni, un atteggiamento poco favorevole alla restaurazione del diaconato: una parte dell’episcopato mostrava interesse ad accogliere i molti vantaggiosi servizi del diacono senza accettare d’altra parte i necessari cambiamenti che la presenza dei diaconi implicava dentro le comunità. Le prime chiese aperte a questa presenza furono Napoli, Torino, e in particolare Reggio Emilia, dove don Alberto Altana, profeta del diaconato in Italia e nel mondo, instancabilmente spese le sue energie in un prezioso lavoro promozionale in favore del diaconato.
La seconda generazione (anni ’80) promosse la crescita del diaconato in molte diocesi, nelle quali i vescovi centrarono lo sviluppo di questo ministero sull’importanza di un processo di formazione globale – umana, teologica e ministeriale. Furono così creati appositi istituti con corsi precisi e docenti specializzati, ma questo processo di istituzionalizzazione per un alto verso indebolì in certa misura la cura caritatevole dei poveri. In questo periodo il diaconato guadagnò una forte solidità culturale, ma perse il riferimento eucaristico della carità necessario per incontrare i fratelli bisognosi, in quello slancio missionario che era invece naturale per la prima generazione.
La terza generazione di diaconi (anni ’90 in avanti) fu molto attenta all’importanza del processo di formazione, ora più equilibrato anche grazie alle chiare indicazioni contenute nei documenti fondamentali del Magistero. Sia i vescovi che i presbiteri cominciarono ad apprezzare il ruolo suppletivo dei diaconi, interpretandolo come un aiuto concreto – più o meno provvidenziale - per rispondere alla carenza di sacerdoti. Di conseguenza, proprio per il forte accento posto sul servizio liturgico, il rischio maggiore della terza generazione è quello di essere soprattutto affascinati dagli aspetti esteriori delle vesti e delle cerimonie liturgiche, mostrando scarso slancio missionario e mantenendo una certa distanza proprio dai poveri e dai bisognosi.
Il delegato vescovile
In questo contesto bisogna spendere anche una parola sui delegati vescovili per il diaconato3. Va precisato subito, che "responsabile ultimo del discernimento e della formazione è il vescovo", come è detto nel documento ON al n. 12b. Tuttavia, soprattutto per ragioni pratiche, il vescovo esercita ordinariamente questa premura tramite un suo delegato. E poiché si tratta di un compito delicatissimo ed importante, "in questa scelta il vescovo metterà massima cura, perché da essa dipende in notevole misura la riuscita del ministero diaconale nella diocesi" (ON 23). Ancora: "Per i suoi compiti decisivi e delicati, il direttore della formazione dovrà essere scelto con molta cura" (ON 21). Anche se non possiamo parlare di tre generazioni di delegati, sicuramente in questi anni c’è stato un avvicendamento piuttosto frequente nella nomina dei delegati, i quali oltre a questo compito hanno in diocesi tanti altri impegni. Il problema è che, spesso, il delegato si sente troppo solo e tra due fuochi (diaconi e presbiteri). Il delegato, oltre alle capacità richieste dai documenti, deve avere anche una chiara conoscenza dei percorsi vocazionali perché possa essere non solo un
3 I compiti del sono precisati in due documenti: I diaconi permanenti nella Chiesa italiana. Orientamenti e norme (O.N.) della Conferenza episcopale italiana, del 1° giugno 1993 (n. 23); Norme fondamentali per la formazione dei diaconi permanenti (N.F.) della Congregazione per l'educazione cattolica, del 22 febbraio 1998 (nn. 21,42,44,58 e 60).