La Diaconia del Genio Femminile
LA DIACONIA DEL GENIO FEMMINILE
di Gaetano Marino*
Non posso esimermi dal riportare alcune testimonianze di spose di diaconi permanenti che ci fanno riflettere sull’importanza di vivere il sacramento dell’ordine sacro, come prezioso dono di Dio per la famiglia e la comunità. Rosanna, moglie di Francesco Guida ci dice: “con il diaconato l’amore coniugale si rafforza e cresce… all’interno della famiglia”, Cristo “ci aiuta ad essere obbedienti al progetto di Dio, la Sua presenza … ci aiuta a non essere da ostacolo agli impegni dei nostri sposi-diaconi, ma ad aiutarli, a stargli accanto, quando e dove possiamo”.
La sorella Anna Federico ci dice: “con tanta fatica portiamo avanti il nostro ruolo che non è facile, ma sicuramente speciale, siamo chiamate non a stare un passo dietro ai nostri sposi o addirittura a portare il peso della scelta dei nostri mariti, ma siamo chiamate a condividere la loro vocazione che rende la coppia ancora di più immagine dell’amore trinitario di Dio”. Preziosa è l’espressione <noi donne chiamate a condividere la vocazione dei nostri mariti>, è la convinzione di un cammino fatto insieme, dove confluiscono pensieri, azioni, pur considerando che le mogli non ricevono l’ordine sacro, ma partecipano al ministero con grande apertura mentale, aiutando, confortando, sorreggendo, diventando figure indispensabili in questo nuovo e prezioso cammino di vita. Il loro rapporto diventa una preghiera vivente, segno dei tempi, prezioso profumo di santità, antidoto che apre il cuore e dispone a riflettere la possibilità a nuove linee programmatiche che, lette dagli addetti alla formazione, possono essere analizzate e studiate per il futuro del diaconato.
Questo comportamento è sinonimo di crescita, di apertura mentale di chi non si mette a guardare da lontano imputando il dito o lamentandosi in continuazione, ma rivolgendo lo sguardo avanti, consapevole dei propri limiti: ne scaturisce una nuova immagine di famiglia dove il sacramento dell’ordine non diventa motivo di riduzione di tempo, aggressione di libertà, di serenità, ma aiuta a dare speranza, fiducia, amore e a donarsi ad ogni membro della famiglia, modello per tanti che hanno bisogno di confrontarsi con realtà sane che non distruggono o modificano l’immagine di Dio nella vita di tutti i giorni. Si pensi ai benefici di una famiglia, che formata a vivere l’amore del dono della chiamata al sacramento dell’ordine del diaconato, inevitabilmente, è testimone vivente di una realtà grande in una società dove tutto si basa sull’esteriorità, sull’indifferenza, sulla mancanza di sensibilità e sull’egocentrismo, dove ci si crede di esser un dio. Sono convinto che con questo tipo di donne la famiglia diventa martello pneumatico dell’amore e della follia di Dio, che si è fatto mettere in croce perché ci ama con amore infinito.
Credo che questo diventi una vera e propria sfida per l’evangelizzazione in un mondo che ha bisogno di presenze umili e disponibili che sappiano inchinarsi su chi si sta smarrendo o si è già smarrito per condurre un cammino insieme, capaci di riscattarlo dalle debolezze umane e attraverso di esse arrivare al cuore di Dio, rendendo il deserto della vita per quanti soffrono ogni sorta di disagio un prato verde di amore, di solidarietà, di riscatto per una vita accettabile, sapendo superare ogni ostacolo accogliendo la propria condizione esistenziale con serenità interiore.
Quindi, è tutta la famiglia del diacono che diventa luogo sacro, che è chiamata ad evangelizzare tante altre famiglie, possiamo dire una “piccola chiesa”, che tiene conto delle proprie esigenze, del tempo per organizzarsi, per riflettere ed agire in nome e per conto di chi ci ha chiamato ad essere operai nella vigna. Al n. 61 del direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti ci sono diverse e importanti considerazioni che ci fanno riflettere sull’importanza della famiglia del diacono. “Poiché la vita coniugale e familiare e il lavoro professionale riducono inevitabilmente il tempo da dedicare al ministero, si richiede un particolare impegno per raggiungere la necessaria unità”.
Da evidenziare che l’unità comporta il superamento dell’individualismo, che è saggezza di vita, sicura crescita. Tutto deve passare attraverso la formazione che porta ad essere convinti del dono di Dio. Inoltre, il documento parlando in particolare della moglie e dei figli dei diaconi, riporta che sia opportuno che la: “sposa del diacono… sia informata delle attività del marito, evitando … ogni indebita invasione, in modo da concordare e realizzare un equilibrato ed armonico rapporto tra la vita familiare, professionale ed ecclesiale”.
“Anche i figli del diacono… adeguatamente preparati, potranno apprezzare la scelta del padre ed impegnarsi … nell'apostolato e nella coerente testimonianza di vita”. Per superare ogni confusione o interpretazione personale sarebbe opportuno evidenziare le strade da intraprendere, specificando bene le priorità da seguire perché ci sono momenti particolari in cui tutto deve essere visto ed effettuato con dinamismo, non è possibile fermarsi, è necessario avere la prontezza di non creare ombre ed ostacoli che fanno perdere di vista l’insieme. Non è la prima volta che assistiamo a eventi che mettono a disagio, a dura prova come: malattie improvvise della moglie, di un figlio, la perdita di una persona cara, la perdita del lavoro, ecc..
Per il diacono ogni sorta di disagio non deve essere visto come impedimento a vivere la comunione, perché chiamati ad essere presenza viva nell’unità, le prove vissute devono essere affrontate e diluite nei componenti della propria famiglia e del presbiterio. Si pensi all’importanza della formazione delle mogli dei diaconi perchè non vivano il ministero del marito come un impoverimento, ma come vocazione intesa come risposta concreta alla chiamata di Dio per il servizio. Pur considerando che la psicologia del comportamento della donna è diversa da quella dei diaconi, se la chiamata non viene vissuta con determinazione potrebbe venir meno l’equilibrio tra famiglia, lavoro e ministero creando un diacono disincarnato dalla Chiesa che si pone di fronte a tanti come un misero e sterile “professionista del sacro” che si limita ad essere presente nei piccoli ritagli di tempo.
La forza del ministero sta nell’importanza di agire, non solo equilibrando queste tre componenti, ma nell’essere sostenuti dai confratelli maggiori (Vescovi e presbiteri) che amino il diaconato e che lo custodiscano per vivere la comunione che parte dall’Eucaristia ed arriva alle numerose famiglie. Solo se si raggiunge un equilibrio il genio femminile vede il diaconato del consorte, come dono divino.
E poiché la moglie del diacono è chiamata a vivere nelle situazioni della società attuale deve puntare ad una spiritualità integrata che aiuti a centrare il nuovo cammino che si prospetta perché deve sostenere ed aiutare il marito in quelle necessità che siano forme di dialogo, di fiducia, di presenza laddove è possibile per arrivare ad essere una famiglia che evangelizza altre famiglie: un coinvolgimento della moglie del diacono nel ministero pubblico del proprio marito nella Chiesa.
* MARINO G., La diaconia del genio femminile, in Il diaconato in Italia, 188/189(2014), pp. 39-41.
Aborto post – nascita ovvero l’uccisione di un neonato
Aborto post – nascita ovvero l’uccisione di un neonato - Alfonso Basso
Alberto Giubilini e Francesca Minerva due giovani studiosi italiani docenti a Melbourne (Australia) e membri della Consulta di bioetica, un'associazione culturale di impianto laicista che promuove le tesi radicali sui temi di bioetica, l’11 Marzo 2012 pubblicavano sulla nota rivista scientifica inglese “Journal of medical ethics” l’articolo “After-birth abortion: why should the baby live?”, nell’intento di giustificare la legittimità morale dell’infanticidio in forza dell’analogia con l’aborto, teorie, tra l’altro, già note in ambito bioetico. L’11 gennaio 2013 i due studiosi sono stati invitati a parlare presso l’Università di Torino e hanno ribadito le loro teorie in seno ad un dibattito all’interno del Master in Bioetica diretto dal Prof. Maurizio Mori.
La loro argomentazione è la seguente: alle stesse condizioni per cui si uccide il feto nel grembo della madre dovrebbe essere permessa anche la soppressione dei bambini appena nati.
Entrambi gli autori dell’articolo sostengono che «quando dopo la nascita si verificano le stesse circostanze che giustificano l'aborto prima della nascita, quello che chiamiamo aborto post-natale debba essere permesso».
Aborto post-natale naturalmente sta per “infanticidio”, utilizzando ancora una volta il metodo dell’antilingua, cioè cambiare i termini per rendere più “soft” una tesi altrimenti inaccettabile.
Questo articolo ha suscitato tanto sconcerto che è condivisibile se riteniamo che il grado di civiltà e giustizia di una società si misuri dal modo in cui essa tratta ed accoglie e cresce i suoi figli. Questo perché “i figli”, soprattutto se neonati, essendo totalmente indifesi, fragili, innocenti, necessitano che qualcuno si prenda cura di loro e il modo in cui essi sono trattati diventa, dunque, un indice prezioso per comprendere in che misura una società è rispettosa degli esseri umani come tali.
Ai due autori italiani può essere riconosciuta una duplice “originalità” nell’affrontare questo tema. Da un lato essi coniano un termine nuovo, quello di “aborto post-nascita” per distinguere l’azione che vogliono legittimare dall’infanticidio. Dall’altro articolano la loro argomentazione sostenendo che nel caso in cui il bambino risultasse “indesiderato”, l’aborto post-nascita rappresenterebbe la soluzione preferibile rispetto a quella di una eventuale adozione del neonato. Quest’ultima affermazione, che già sarebbe suffragata da indagini psicologiche, andrà certamente discussa e valutata.
Questi due elementi di novità hanno come presupposto una concezione funzionalistica, per nulla nuova della “persona”, secondo la quale un individuo può essere considerato tale e di conseguenza soggetto morale del diritto alla vita, solamente quando, come scrivono i due autori, essendo cosciente, è in grado di attribuire alla propria vita un valore e un senso in forza del quale percepirebbe come danno l’essere privato dell’esistenza. E’, infatti, solamente a partire da una concezione così riduttiva dell’essere umano che essi possono sottolineare, con una coerenza che gli va certamente riconosciuta, la legittimità dell’aborto pre e post -nascita e sostenere la preferenza dell’uccisione del neonato rispetto alla possibilità di darlo in adozione.
Prima di arrivare a considerare le conclusioni, vediamo più da vicino come Giubilini e Minerva svolgano la loro argomentazione e valutiamone la solidità.
L’articolo si apre dando spazio al riscontro che l’aborto volontario è solitamente considerato legittimo se effettuato in forza di alcune motivazioni e in alcune condizioni. Non apportano, però, motivazioni sostenibili per la legittimità dell’aborto.
A partire, dunque, dalla constatazione che l’aborto è per lo più giustificato nel momento in cui la nascita di un bambino può arrecare danni fisici o psichici alla donna, i due autori si chiedono se tali motivi, qualora insorgano appena dopo la nascita, possano essere ugualmente validi per giustificare l’uccisione del bambino anche dopo la nascita. I casi che essi portano come esempio sono quelli rappresentati da eventuali complicanze intercorse durante il parto, dalla presenza di patologie non diagnosticate o non diagnosticabili prima della nascita, da cambiamenti nella situazione affettiva ed economica dei genitori che li condannerebbe a farsi carico di “un peso insostenibile che non sono in grado di sopportare”.
Il bambino può essere ucciso sia prima sia dopo la nascita in quanto non è ancora una “persona”, ma solo una persona potenziale che non è in grado di dare valore e significato alla propria vita, di essere cosciente di essa, nonché di esprimere desideri e fare progetti per il futuro. Ecco che l’analogia fra l’aborto e quello che loro chiamano “aborto post-nascita” è congegnata come valida per legittimare “per proprietà transitiva”, il secondo termine dell’analogia stessa.
L’articolo di Giubilini e Minerva, tuttavia, è sostanzialmente coerente nel percorso che svolge, ad esclusione di qualche sfumatura, ma muove da una concezione di “persona” che va necessariamente discussa se si vogliono poi valutare con onestà intellettuale anche le conclusioni a cui conduce. La definizione di persona che i due autori propongono è da rifiutare, non in forza di una “opzione di fondo” che, all’opposto, vorrebbe, senza ragioni, tutelare ogni persona considerata da essi potenziale, ma perché non è in grado di cogliere, in tutte le sue sfaccettature, lo specifico darsi effettivo della persona umana.
Essa, infatti, è tale per cui ha bisogno di tempo per potersi sviluppare, ha bisogno cioè di alcune condizioni per poter esprimere al massimo quelle qualità e capacità che i due autori riconoscono ed esaltano come determinanti per riconoscere ad un individuo il diritto alla vita.
Sul piano biologico, al momento della fecondazione viene a costituirsi una nuova entità, chiamata zigote[1]. Essa ha un patrimonio genetico originale, diverso da quello del padre e della madre. Dal momento in cui l’ovulo è fecondato, s’inaugura una vita che non è quella del padre o della madre ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. “Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora”.[2]
Troviamo qui la netta affermazione della discontinuità tra la vita dei genitori e la vita del concepito. Allora è chiaro che siamo davanti ad una nuova realtà vivente di natura umana (ovviamente non potrebbe essere di un’altra natura).
La scienza genetica ha dimostrato come dal primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest’uomo individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dal processo della fecondazione è iniziata l’avventura di una vita umana che “per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale, poiché possiede una piena qualificazione antropologica ed etica. L’embrione umano, quindi, ha fin dall’inizio la dignità propria della persona”.[3]
La capacità di aver coscienza di se stesso, di relazionarsi ad altri, di esprimersi attraverso il linguaggio, sono certamente qualità che mostrano il valore dell’umano e danno ragione della tutela che gli si riserva, ma tale tutela si radica nella condizione ontologica che permette tali eccezionali espressioni e che, come tale, caratterizza ogni essere umano. Tale condizione ontologica, infatti, caratterizza ogni uomo in qualsiasi stadio dello sviluppo e rappresenta la condizione non sufficiente, ma necessaria di quelle capacità così tanto sottolineate dai due autori. Di conseguenza, per non cadere in una definizione arbitraria di persona che, infatti, lascia Giubilini e Minerva in imbarazzo di fronte alla richiesta di “determinare esattamente quando un soggetto inizia o smette di essere una persona” e ad indicare fino a che età l’aborto post-nascita possa essere praticato, l’unica alternativa è quella di riservare il diritto alla vita all’essere umano in quanto tale.
E’ inoltre, riduttivo legare la tutela di un essere umano alla qualità/quantità dei suoi interessi e si mostra arbitraria la decisione di far prevalere gli interessi degli adulti su quelli del neonato che vengono ripetutamente investiti di scarsa considerazione, senza che i due autori, peraltro, chiariscano con adeguata precisione lo stesso concetto di interesse a cui continuamente fanno riferimento. Si può, tuttavia, concedere che gli interessi di un adulto abbiano una portata più ampia, ma è innegabile che anche un neonato abbia degli interessi che, infatti, anche se non sono verbalizzati, risultano evidenti nel suo dinamismo vitale, nella sua richiesta di cibo e nel suo interagire con coloro che si prendono cura di lui fin dai primi giorni.
Per tornare all’analogia, allora, aborto pre e post - natale sono due azioni moralmente equivalenti in quanto neonato e feto sono ontologicamente equivalenti, perché siamo davanti, in ogni caso, ad una “persona” in atto: di conseguenza entrambe queste azioni sono illegittime perché ledono il diritto alla vita di un essere umano dato che pongono fine alla sua esistenza.
Tale conclusione è fondamentale, non solo perché tale diritto è alla base di tutti gli altri, (il diritto alla vita è il primo Principio non negoziabile) ma anche perché il suo riconoscimento in questi termini permette di evitare qualsiasi discriminazione nei confronti degli esseri umani: o essi sono tutelati in ogni condizione oppure cadono inevitabilmente in balìa della legge del più forte. Giubilini e Minerva, infatti. ritengono che lo status morale del nascituro o del neonato dipendano dal valore che gli attribuisce la madre, ossia l’essere umano adulto che ha potere assoluto nei suoi confronti. Se questi sono i termini con i quali è interpretata la generazione umana, allora è ormai stravolto il senso del rapporto genitori-figli dato che il figlio, in questo modo, è visto come un oggetto o un prodotto il cui valore dipende dall’interesse, inteso in termini utilitaristici, della coppia o di quanti lo hanno messo al mondo.
I due relatori cercano, inoltre, di difendere la loro tesi, affermando che non ci può essere un danno a qualcuno se questo qualcuno non è in grado di cogliere l’azione subita come un danno. Il concetto di danno che essi utilizzano non è adeguato: perché ci sia un danno non è necessario che la persona danneggiata debba accorgersene, ma, potremmo dire, è invece necessario che venga leso un suo interesse. Tale interesse non deve però essere inteso come qualcosa che viene emotivamente percepito dal soggetto, ma come il rapporto oggettivo fra il soggetto e un bene. Nel caso dell’aborto pre o post nascita il bene, non solamente leso ma, addirittura, distrutto in maniera irreversibile, è proprio quello della vita che rappresenta il presupposto di qualsiasi altro bene, la cui soppressione, quindi, non può che rappresentare un grave danno. I due autori proseguono con due chiarificazioni terminologiche. Essi, innanzitutto, precisano che hanno deciso di usare il termine “aborto post-nascita” e non quello di “infanticidio” per sottolineare che lo status morale della persona uccisa è paragonabile a quello di un feto più che a quello di un bambino e, di conseguenza, chiedono di rendere legittima l’uccisione di un neonato in tutti quei casi in cui è legittimo l’aborto. Tale “richiesta” non può essere accolta perché, dato che il processo di crescita dell’essere umano non conosce uno stacco qualitativo, non si può affermare che feto – neonato - bambino abbiano un diverso stato morale e, di conseguenza, va riservata loro la medesima tutela dato che tali parole non indicano delle entità, di fatto, differenti ma semplicemente sono dei nomi che indicano diverse fasi dello sviluppo dell’essere umano a cui spetta, sempre, la tutela.
In secondo luogo, affermano di aver scelto il termine “aborto post-nascita” per distinguere l’azione identificata con tale locuzione da quella identificata dalla parola “eutanasia neonatale” per sottolineare il fatto che l’interesse di chi muore non è necessariamente il primo criterio di scelta che è, tendenzialmente, rappresentato dalla salvaguardia degli interessi delle persone adulte che possono essere messi in pericolo dall’esistenza del bambino. La prassi di risolvere i problemi ricorrendo a delle ridefinizioni raramente funziona e questa decisione arbitraria di chiamare in modi differenti azioni uguali, non riesce nell’intento di avallare un prassi smarcandola dall’accostamento con una parola, quella di “eutanasia neonatale”, che, a livello di opinione pubblica, risulta problematica. Le due azioni, anche qualora fossero perseguite sulla scorta di motivazioni differenti, essendo uguali, rimangono entrambe illegittime avendo come oggetto l’uccisione di un essere umano nei giorni successivi la sua nascita.
I due autori concludono il loro articolo con la tesi innovativa secondo la quale l’aborto post-nascita sarebbe preferibile rispetto all’ipotesi di dare in adozione il bambino indesiderato in quanto opzione meno traumatica per la madre. Come l’uccisione volontaria del proprio figlio possa essere pensata, anche dal punto di vista dell’incidenza emotiva sull’equilibrio psichico di una persona, come scelta migliore rispetto all’adozione, è un mistero che forse solo l’approfondimento degli studi psicologici a cui i due autori fanno appello, senza riportare precisi riferimenti, potrebbe chiarire. Sicuramente, dal punto di vista morale, una prassi di questo tipo non può essere pensata come legittima e risulta sproporzionata perché, per quanto la vita del neonato, nella prospettiva dei due autori, possa godere di scarsa considerazione, essa, di certo, non è a tal punto così priva di valore da far prevalere l’egoismo del soggetto più forte sulla vita del più debole.
Oggi viviamo in società democratiche che hanno come idea fondamentale il fatto che tutti gli esseri umani hanno pari diritti. Per far valere questi diritti si sono versati lacrime e sangue, fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, non a caso scritta dopo il nazismo. La tesi dell’infanticidio mina le basi su cui poggiano tutte le Carte internazionali.
“Infatti Dio, padrone della vita, ha affidato agli uomini l'altissima missione di proteggere la vita: missione che deve essere adempiuta in modo degno dell'uomo. Perciò la vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; l'aborto e l'infanticidio sono delitti abominevoli”.(GS, 51)
[1] Lo zigote è una cellula che si ottiene dalla fusione di due cellule specializzate: i gameti maschile e femminile, normalmente apolidi (n), in una cellula normalmente diploide (2n). Nello zigote è ricomposto il numero dei cromosomi appartenenti alla specie umana che è di 44 autosomi e due cromosomi sessuali, per un totale, quindi, di 46 cromosomi. La singamia è il processo di fusione dei gameti in un unico nucleo.
[2] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Sull’Aborto procurato, AAS 66 1974, 730-747. GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle Famiglie “Gratissimun sane”, n 21 1994, in AAS 86 (1994) 920
[3] Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione “Dignitatis personae”
BORGONO C., Lo statuto dell’embrione umano nella Dignitas personae, Studia Bioetica vol 2 (2009) n 1, pp. 19-28
Formazione 29 Ottobre 2016 Relazione I
Relazione del gruppo di lavoro n. 1
moderato dal diacono Crescenzo Mazza
Dopo un’attenta riflessione di S.E. Mons. Acampa sull’identità del Diacono permanente, con la quale afferma, tra l’altro, che la nostra Arcidiocesi ha una grande potenzialità data dall’alto numero dei diaconi presenti (circa 300 diaconi), nonché cenni e riferimenti al Direttorio della vita del Diacono permanente del 22.02.1998, si chiede ai diversi gruppi di lavoro una riflessione circa l’identità, nella prassi e nel vissuto quotidiano all’interno della nostra Diocesi, del Diacono quale ministro della carità e annunciatore del Vangelo.
Il gruppo di lavoro, dopo aver condiviso e fortemente apprezzato l’intervento di S.E. Acampa, all’unanimità accoglie con gioia la metodologia proposta della condivisione di gruppo e, tra l’altro, auspica che possa essere realmente utile per delle più attente indicazioni nello svolgimento del ruolo ministeriale del diacono stesso.
Diversi diaconi partecipano la difficoltà, ormai storica, del fatto che si è poco valorizzati dai Parroci, e più in generale dai presbiteri, sul ruolo ministeriale che, di fatto, un diacono potrebbe svolgere all’interno della singola Parrocchia. A tal proposito è auspicio di tutti i componenti del gruppo che vi sia una più attenta formazione non solo ai giovani seminaristi (i preti di domani), ma anche ai presbiteri di oggi. Si riflette sul fatto che una mancata comunione tra i ministri del Vangelo in una Chiesa che è, prima di tutto, comunione, pone di fatto degli ostacoli affinché il popolo di Dio possa crescere ed essere unito, per l’appunto, dalla comunione fraterna.
A questo viene aggiunto che, in alcune circostanze, il ministero diaconale svolto dal singolo diacono vive una “trasformazione” in base al parroco nominato nella data comunità (cambia parroco, cambia il ministero diaconale in quella comunità).
Alcuni del gruppo di lavoro hanno suggerito che anche il diacono, come per tanti presbiteri, sia giusto non restare nella parrocchia di origine così da permettere una crescita ministeriale, nonché umana, anche in altre comunità, date le diverse esigenze pastorali, mentre altri (sicuramente in maggioranza) ritengono il contrario, non solo perché il diacono è espressione della preghiera della propria comunità, ma anche perché al cambio di parroco, di fatto, il diacono è memoria storica del vissuto della comunità parrocchiale, nonché, in diversi casi, punto di riferimento per i tanti collaboratori.
Viene anche evidenziato che molto spesso i diaconi non celebrano i sacramenti propri del ministero ma, sotto l’aspetto liturgico, vengono limitati a presiedere alle sole celebrazioni funebri. Questo chiaramente non vale per tutti i diaconi del gruppo di lavoro.
Tra l’altro nasce, man mano sempre più, una esigenza di confrontarsi con i presbiteri. Questo può sicuramente avvenire all’interno del presbiterio del proprio decanato, ma anche in incontri che il Vescovo potrebbe organizzare insieme, presbiteri e diaconi.
Dopo aver condiviso dette difficoltà nello svolgimento del servizio ministeriale, viene meglio individuato “l’identikit del diacono”, quale uomo del “silenzio”, “obbediente” ed “umile”.
Vari passaggi portano a far risuonare nel gruppo di lavoro la citazione di At 6,3 nella quale già viene tracciata l’identità stessa del diacono come uomo di buona reputazione, pieno di Spirito e di saggezza. Questa volontà degli stessi Apostoli, che nasce da un’esigenza della Chiesa primitiva, che è prima di tutto quella di lasciare, agli Apostoli stessi, spazio alla preghiera e al ministero della parola, traccia di fatto un ruolo ministeriale specifico, nonché proprio, per i diaconi.
Il diacono non può non essere, tra l’altro, uomo dell’equilibrio, dato i diversi uffici che è chiamato a vivere: famiglia, lavoro, sacramento dell’Ordine nella dignità del diaconato.
A tal proposito viene indicata un’immagine, che è quella di una bilancia a tre braccia, chiarendo che, come risulterebbe poco facile dare equilibrio ad un oggetto simile, così potrebbe risultare nella vita del diacono che, inevitabilmente, coinvolge tutta la realtà familiare.
Questo equilibrio non può che sussistere conducendo una vita di preghiera, partecipando all’Eucaristia (preferibilmente ogni giorno) e, come già indicato nella parte iniziale della mattinata S.E. Acampa, con la meditazione della Parola (tutti i giorni), perché ognuno si sforzi di viverla secondo l’insegnamento di Cristo. Per questo il diacono che desidera adempiere ai propri uffici, laicali (in quanto vive realtà secolari) e clericali (in forza del sacramento dell’Ordine che lo conforma a Cristo Servo e obbediente), è chiamato sempre più ad acquisire la forza spirituale dalla Parola di Dio, che resta fondamentale nella vita di ogni credente e, in modo particolare, del ministro di Dio.
Come gli Apostoli, però, indicarono un ruolo specifico per i diaconi, così potrebbe essere auspicabile che i diaconi, di fatto, oggi possano svolgere dei servizi ecclesiali propri e che, attraverso gli stessi servizi ecclesiali, possano riacquisire una identità diaconale specifica e ben definita. A tal proposito potrebbe essere utile indicare, da parte del Vescovo, compiti propri del diacono all’interno della comunità parrocchiale.
Infine è stato condiviso che tra gli stessi diaconi ci sia una maggiore comunione che, chiaramente, può e deve essere promossa a partire dai diversi Decanati.
Formazione 29 Ottobre 2016 Relazione II
Relazione del gruppo di lavoro n. 2
moderato dal diacono Ciro Pennone
Gruppo molto variegato - presenti diaconi ordinati da 1 a 25 anni e 2 mogli
La discussione è stata da subito molto viva e partecipata.
Ne è venuto fuori che i diaconi avevano un’idea dell’identità del diacono stesso molto più viva prima dell’ordinazione che non adesso.
Ci si sente più apprezzati dai lontani che non dalla comunità di appartenenza perché si fà poco per far conoscere all’assemblea il ruolo del diacono.
In genere i diaconi non sono utilizzati secondo le proprie attitudini o carismi ma si diventa quasi un tappabuchi, si passa dall’essere o un sub-prete o un super-laico.
A tal proposito si è proposto di inviare un vero e proprio direttorio a firma del cardinale che indichi a tutti i parroci il ruolo del diacono nella comunità.
Da tutti gli interventi si è evidenziato come comune denominatore il difficile rapporto con i sacerdoti: la proposta per superare queste difficoltà è stata quella di costruire un dialogo vero tra diaconi e presbiteri già a partire da incontri con i seminaristi.
L’altra nota dolente che si è evidenziata è la mancanza di comunione tra i diaconi.
Ci sono molti diaconi in difficoltà sia economica che di salute e sono lasciati a se stessi per cui sarebbe opportuno creare un gruppo di ascolto che si occupi proprio di loro.
Importanti anche iniziative comuni come centri del Vangelo o benedizioni delle famiglie come si è fatto in qualche decanato.
Le mogli dei diaconi sono poco considerate: fanno solo presenza; creare un gruppo di mogli che si incontri a prescindere dai mariti